Marco Sguaitzer, il giro del mondo contro la Sla

Le parole di Marco Sguaitzer hanno fatto il giro del mondo. In faccia alla Sla, che lo costringe all'immobilità. La straordinaria forza dell'ex calciatore di Mantova e Suzzara è la rigenerante benzina che sta caratterizzando una condivisione spontanea e allargata in Rete. Sull'edizione nazionale della Gazzetta dello Sport curo un pezzo sul successo e la condivisione del libro di Marco "Senza limite alcuno", pubblicato dalla casa editrice Sometti.  Facebook il mezzo utile alla causa, gli amici di una vita a postare le foto del suo libro dai cinque continenti. Con l’intensità del messaggio ha smosso l’anima di una città intera, smuovendola dall'intorpidimento, come trascinandola fuori dalle proverbiali nebbie. Le parole di Marco sono profonde, ne avevo giù parlato qui analizzando la forza del suo "grazie". Nel suo blog di recente scrive: “Giunto al bivio vita/termine – scrive Marco – decisi di continuare nella impari lotta”. La sua lotta ora ha toccato i cinque continenti, in faccia alla Sla.

Il libro di Marco Sguaitzer a Bangalore, in India.

Il pezzo su Marco Sguaitzer, sull'edizione nazionale della Gazzetta.

Iveco Suzzara, la squadra della fabbrica

Iveco Suzzara. La particolarissima storia della squadra di calcio mantovana di Seconda categoria nata in fabbrica nel 2011. Nello stabilimento della Iveco, che ora è scelto da Fiat come unico centro di produzione europea del furgone Daily.

E' una storia di calcio, orgoglio, identità e lavoro. Con un richiamo all'affascinante vicenda della Torpedo Mosca nell'Unione Sovietica. Come l'Iveco: la squadra della fabbrica.

Ne parlo in un articolo pubblicato sull'edizione lombarda della Gazzetta dello Sport. Il pezzo integrale sulla vicenda dell'Iveco Suzzara è consultabile liberamente dall'archivio online di Gazzetta.it.

Deserto alimentare

Verdure introvabili nei deserti alimentari degli States.
(foto leverduredelmioorto.it)
Il deserto alimentare esiste dove in un raggio di 15 chilometri non risulti possibile trovare e acquistare frutta e verdura e cibo sano. Parrebbe inverosimile l'esistenza di deserti alimentari nella società del benessere. Invece nei quartieri più disagiati di New York sono segnalati e monitorati deserti alimentari, dove la cultura del mangiare sano è totalmente inesistente.

Il termine deserto alimentare (urban food desert) è stato coniato da una commissione incaricata dal Governo britannico del 1995 sulle abitudini alimentari. E' un effetto collaterale della civiltà contemporanea e dell'imperare delle catene di mega centri commerciali e di fast food. Gli Stati Uniti i principi del paradosso. Uno studio della Kansas State University rivela che dal 2006, 82 negozi di generi alimentari su 213 che servivano le comunità locali di meno di 2.500 abitanti dello stato del Kansas, hanno chiuso. Così le popolazioni locali sono costrette a muoversi, guidando le proprie automobili per 10, 15, 20 chilometri alla ricerca di cibo da acquistare e non è detto che tra i generi alimentari sui banchi vi siano frutta e verdura.

Le conseguenze naturali sono aumento di obesità, malattie cardiocircolatorie e, naturalmente, inquinamento. Sul tema c'è un pregevole documentario, realizzato nel 2012 da Romain Bolzinger. "USA: Battling obesity".

Maderşahî, un tweet per assicurare un "dopo"

Un dopo in faccia a chi voleva scrivere la parola fine. Suruc è una piccola cittadina del sud della Turchia, a pochi chilometri dal confine dalla Siria. La strage del 20 luglio ha ucciso 32 giovani ragazzi curdi. Il kamikaze vicino all'Isis si è fatto esplodere uccidendo 32 persone e ferendone un centinaio. Suruc da mesi ospita migliaia di rifugiati siriani provenienti da Kobane. L'esplosione è avvenuta davanti al Centro culturale Amara, dove erano riuniti centinaia di ragazzi della SGDF, l’Associazione dei giovani socialisti turca.

32 le vittime. Un tweet che ha fatto il giro del mondo, quello della giovane Maderşahî Barajyikan che ha voluto pubblicare il selfie dei ragazzi di Suruc, dopo la strage. Un fermoimmagine per non abbassare la testa davanti al terrore. Volevano portare sostegno, viveri e giochi ai bimbi di Kobane in Siria, li hanno sterminati. Ma il tweet di Maderşahî ha la forza di scrivere un dopo rispetto alla strage in risposta a chi voleva scrivere la parola fine e, contemporaneamente, di alzare il tiro sulle responsabilità del Governo Erdogan.

Ivan Juric, intervista al croato a vent'anni dalla Guerra dei Balcani

Ivan Juric, foto Tuttomantova.it
Un'occasione perduta. Il dopoguerra dei Balcani, nella visuale croata di Ivan Juric, si è tramutata in una chance di arricchimento per pochi, per chi già comandava sotto il regime comunista di Tito e ha punito, anche dopo il sangue del conflitto, la popolazione.

Una questione di soldi e potere, come sempre. Ivan Juric è una piacevolissima eccezione all'interno del mondo del calcio. Carattere sincero, trasparente, duro. Persona profonda che riesce sempre a sorprendere.

Nell'intervista realizzata per Telemantova a inizio giugno 2015 un'appassionata analisi di quello che è significato il conflitto per la Jugoslavia e di quanto il calcio abbia inciso nelle dinamiche pre e postbelliche. Il dramma di Vukovar, gli interrogativi di Mostar e la sensazione che le ambizioni di indipendenza e autonomia di popoli siano stati sfruttati, col sangue, da chi voleva mantenere il potere.

Viaggio a Sarajevo

Palazzo popolare a Grbavica, giugno 2015.
Quando una donna bosniaca ti invita a prendere un caffè ti regala un lasciapassare per un antico e incantato rito, fatto di pause e tempi giusti per il racconto. E Sarajevo di racconti trasuda. Il caffè che mi ha definitivamente aperto l'anima della città l'ho bevuto a Grbavica. Non un quartiere qualsiasi. Da lì partì l'assedio dell'Armata Federale ultranazionalista, scesa dai monti e dal quartier generale di Pale, sulla città della convivenza. Pulizia etnica e cecchini sui palazzi. Colpi di mortaio che le aree residenziali portano diciannove anni dopo il cessate il fuoco ancora, evidenti, sulle strutture.

Sarajevo è ripartita. Il mio viaggio nei Balcani è stato un percorso alla ricerca della ripartenza di una terra violentata. Nel silenzio e nell'immobilismo o talvolta con la colpevole collaborazione dell'Occidente. Ce la sta facendo, pur tra mille ostacoli e difficoltà, tra evidente povertà e corruzione dilagante, a ritrovare l'equilibrio sul quale è sempre vissuta. 

A Sarajevo nulla è banale e non potrebbe esserlo. Tutto è estremamente complesso e intricato. Territorio montuoso e impervio, antico cuore dell'incontro tra Oriente e Occidente. Matrimoni misti, due alfabeti correnti (al latino si affianca il cirillico), convivenza spalla a spalla tra etnie culture e religioni di origini distanti. Ribalta i concetti, le incasellate visuali occidentali. "Qual è la tua religione?", quesito legittimo subito destrutturato dalla complessità balcanica: "Non è facile risponderti, io ne ho quattro in casa". Qui non trovano dimora le preconfezionate etichette occidentali.

Sarajevo ha in sé il passato, perché porta sulle spalle con orgoglio e saggezza le contaminazioni di quattro secoli di dominazione turca e al contempo consente di respirare cultura slava e accenni di Mitteleuropa. Da Sarajevo intravedi il futuro perché è l'esempio, talvolta non accettato, di come il mondo dovrebbe e potrà essere. Convivenza e condivisione, senza ghetto alcuno. Non troverete lungo la Miljacka quartieri vissuti esclusivamente da cristiani o musulmani. Il melting pot della capitale bosniaca è, prima di tutto, concepito e vissuto dal punto di vista residenziale. Una coabitazione che introduce inevitabili complicazioni, ma nella sua ultracentenaria storia i veri problemi Sarajevo li ha sempre visti arrivare dall'esterno, mai dal suo cuore multietnico. Sarajevo fortunatamente è il presente. E' ripartita, dopo millequattrocentoventisei giorni di assedio, dopo la guerra che ha messo in ginocchio la Bosnia Erzegovina e la pulizia etnica compiuta dai cetnici.

Tre tazzine. Un caffè a Grbavica. Con Edina e Federica.
In quel caffè a ben vedere c'è tutto: il rituale di concedersi il tempo per una pausa, i silenzi e la narrazione orale, ogni giorno. Un tempo lento, lontano dall'accelerata quotidianità Occidentale. Inaccettabile per la società del consumismo sfrenato e anche per gli ultranazionalisti di Radovan Karadžić che rinnegarono, a colpi di artiglieria pesante, i concetti di città e di convivenza, bombardando e fucilando la secolare anima sarajevese.

Sarajevo ti resta addosso e così il rientro dai Balcani è denso di storie, rigorosamente raccontate, di vite e di sguardi. Dermina, Edina, Hussein, Dina, Alma e tutti gli incroci di un viaggio scomodo, intenso e totalizzante. Con le visuali bosniache che viaggiano diametralmente opposte a quel che accade fuori dai Balcani. Tito è tuttora considerato da Sarajevo un eroe (alla sola pronuncia del suo nome nella non troppo distante Trieste compaiono incubi e balzano alla memoria stragi e la drammatica pagina delle foibe), colui il quale riuscì a garantire pace, stabilità e normalità all'intricata miscela d'anime e culture bosniaca. Qui, dove i vicoli sono pieni di immagini di Francesco, primo Papa dopo Giovanni Paolo II, a visitare Sarajevo, l'Unione Europea è ancora considerata un'opportunità. Musulmani che votano il candidato di origine cristiana "perché ritenuto il meno corrotto tra i candidati" o le foto di Bill e Hillary Clinton appese ai bazar e nei caffè: unici leader incorniciati nelle taverne di Baščaršija, perché "seppur bugiardi, i più bugiardi al mondo", gli americani sono quelli che hanno dato il via ai bombardamenti sulle postazioni di Karadžić. L'eredità dell'intervento rimane pesante, perché dell'uranio impoverito è piena la montagna bosniaca. "Toglietevi le scarpe, lavate i vestiti", ma delle misurazioni effettive poco o nulla trapela. Ma Sarajevo all'America è legata a doppio filo, basti pensare che ancora oggi Vilsonovo šetalište è uno dei viali più ammirati, intitolato a Woodrow Wilson, ventottesimo presidente statunitense: colui che nel 1917 dichiarò guerra all'impero Austro Ungarico. In quel primo conflitto mondiale che nacque proprio sulla Miljacka con il colpo di pistola di Gavrilo Princip. "I Balcani producono più storia di quella che riescono a mangiarne", la nota dichiarazione di Winston Churchill riassume efficacemente i mille intrecci di storia sarajevese.

La visuale dello statista britannico è corretta ma parziale. I Balcani sono, a ben vedere, un frullatore accelerato di storia. Se il tempo della quotidianità bosniaca concede pause giuste e doverose, la scala più ampia fornisce una condensazione di eventi impensabile ad altre latitudini europee. Due velocità, in una. Con una costante. "Nel male c'è sempre il bene", mi ha detto Edina a Grbavica. Una verità generalizzabile che a Sarajevo trova maggior forza. L'unicità bosniaca ha visto tre guerre (due conflitti mondiali e l'assedio più lungo della storia moderna) in ottant'anni. Scandire quella verità tra i palazzi martoriati di Grbavica ha un'altra eco. Perché lì, tra le mille storie che mi porto dentro, le schegge di un colpo di mortaio dei serbi avevano dilaniato il corpo di un sarajevese e il suo ricovero all'ospedale, costringendo il padre musulmano a seguire le sorti del figlio ferito, salvò in seguito la vita al padre, che a sua insaputa uscì da Grbavica qualche ora prima della pulizia etnica delle milizie di Karadžić. "Nel male c'è sempre il bene". Eccola l'anima bosgnacca capace di guardare avanti, nonostante l'assedio di Sarajevo, il genocidio della vicina Srebrenica, l'uranio impoverito e la corruzione oggi dilagante. 
Tramonto su Sarajevo. Giugno 2015.