Un'idea di Europa

Uno screenshot del portale
Osservatorio Balcani e Caucaso.
Si parla tanto di Europa, spesso a vuoto. Il fraintendimento più diffuso nell'opinione pubblica è quello che oggi porta ad avvicinare al termine Europa unicamente il profilo economico, dominante nelle politiche dell'Unione Europea. Responsabilità comunicative e mediatiche, che però sottolineano la mission prevalente, se non addirittura invadente, dell'UE come la conosciamo oggi. Il giornalista e scrittore Paolo Rumiz in più occasioni ha sottolineato come sia molto più semplice avvicinarsi al significato profondo del termine Europa, guardando agli stati dell'Est del vecchio continente. Per centrare l'obiettivo e avvicinarsi in maniera tangibile al significato di Europa arriva in soccorso un eccellente portale d'informazione. Avanguardia giornalistica 2.0. Un'idea estremamente efficace di Europa la fornisce infatti un progetto web nato nel 2000. L'Osservatorio Balcani e Caucaso (www.balcanicaucaso.org), che fonda le proprie radici nella trentina Rovereto e guarda, per missione e anima, a tutti i territori del sud-est europeo e alle relative contaminazioni mediterraneo-asiatiche. La cronaca dalle capitali della Mitteleuropa è fondamentale per cercare di capire quale futuro possa avere l'Unione Europea, oggi perlopiù spettatrice delle dinamiche politiche - mondiali come interne (la più evidente è certamente quella relativa al decennale immobilismo di Bruxelles sul dramma dei migranti nel Mediterraneo) - proprio perché in sé non riesce ancora ad assicurare il giusto spazio per l'anima delle proprie radici. Senza radicamento non si può avere slancio. Pubblicazioni, reportage, documentari, corrispondenti. Diritti umani, integrazione interetnica e interreligiosa, cronaca e derive di tutto ciò che sta a Est. Da Trieste a Sarajevo e Mostar, dalla Romania alla Cecenia, dalla Croazia alla Grecia, passando per l'Armenia. L'Osservatorio è un evidente esempio dell'approfondimento di cui l'Europa ha bisogno per trovare o ritrovar sé stessa. Un think tank che non a caso ha preso piede in terra trentina, là dove con la Prima guerra mondiale il Vecchio continente cambiò la storia. E, oggi, grazie a quelle terre l'Europa ha un'opportunità per riprendere il filo delle proprie radici.

Lorenteggio, #573

Una delle piante che verranno
sradicate. (Foto Pagina Facebook
Comitato Lorenteggio Foppa
Washington)
Le opere pubbliche utili sono le benvenute. Gli effetti collaterali di ogni opera sono da monitorare con attenzione. Lorenteggio, periferia sud di Milano. I cantieri della futura metropolitana M4 dovrebbero portare allo sradicamento di 573 alberi. Alcune piante, sembra le più giovani, saranno poi rimesse a dimora. L'allarme però, nel quartiere, è scattato. #573 l'hashtag comparso sulle piante a rischio lungo le vie dei cantieri della M4. Il verde, nel Novecento, è stato troppe volte sacrificato sul piatto dell'urbanizzazione. L'attenzione è dunque legittima. Ben venga peraltro la protesta civica e civile del consigliere comunale del Movimento 5 Stelle Mattia Calise, che nelle scorse settimane si è arrampicato su uno degli alberi di via Lorenteggio per protestare contro l'abbattimento delle piante, gesto che ha certamente attratto l'attenzione mediatica sulla situazione nella periferia milanese.

E' un copione ben noto nella civiltà contemporanea. Lo Stato, il Comune, la Regione o chi per essi decide di costruire un'opera, che giocoforza rivoluzionerà l'ambiente circostante. La cittadinanza toccata sul vivo si muove per far sentire la propria voce. E, come ricorda la giornalista messicana Cynthia Rodriguez nel blog "La città nuova" del Corriere della Sera, talvolta la voce della popolazione può avere la meglio. Sul progetto del Tren Elevado in Messico, fu il parere (unito) del popolo ad avere la meglio. Chissà che a Lorenteggio una proposta costruttiva della cittadinanza possa garantire un futuro alle 573 piante milanesi.

Ilaria, quando alla corsa agli stand-up è preferita la ricerca della verità

Ilaria Alpi, inviata in Somalia negli anni Novanta.
Foto Giornalistitalia.it
Una giovane giornalista che incarna al meglio un mestiere che spesso intraprende derive antietiche, esibizionistiche ed autocelebrative. Una strada da seguire per cercare di far emergere traffici internazionali dubbi e illeciti. Un sistema e uno Stato che la abbandonano. Si intrecciarono più traiettorie nella vita giornalistica in Somalia di Ilaria Alpi.

Lei, trentaduenne e alla prima missione da inviata, fu l'unica - sempre in prima linea e tra le linee - a provare a districare la complessa matassa di intrighi internazionali che si celavano dietro la guerra civile somala degli anni Novanta. Non è difficile amare il giornalismo, è molto meno semplice invece onorarne nel profondo la professione. Ilaria non amava le conferenze stampa preconfenzionate, lei stava sul campo, tra le donne, tra la gente di Mogadiscio. Alla corsa agli stand-up preferiva l'approfondimento. Grazie a questa visuale non protocollata, non accomodante, non tradizionalmente embedded, Ilaria intravide quello che ancora oggi, ventuno anni dopo la sua morte, è stato secretato e in gran parte oggetto di depistaggi dai Servizi.

I recenti sviluppi d'indagine giornalistica - raccontati da Chi l'ha visto e dalla docu-fiction di Rai Tre - forniscono carburante vitale alla ricostruzione di uno scenario estremamente labile nel quale Ilaria si era introdotta, nella ricerca della verità. "Nessuna rapina o tentativo di sequestro. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono caduti in un agguato, studiato nei dettagli, per zittire una giornalista divenuta ormai estremamente pericolosa e, con lei, il suo operatore". Così scrive Repubblica dopo gli ultimi sviluppi. Ilaria, inviata del Tg3 nel 1994, avrebbe raccolto in Somalia - tra Bosaso e Mogadiscio - indizi sufficienti per smascherare un traffico d'armi clandestino. Ventun'anni dopo, il modo migliore per onorare la voce coraggiosa di Ilaria Alpi è condividerne la travolgente passione che le faceva portare l'amore per la popolazione somala e la verità nel cuore.


Remembering, la riconquista della dignità perduta

Ai Weiwei davanti all'elenco dei nomi dei bambini
morti nelle scuole crollate nel sisma del Sichuan.
(Foto artasiapacific.com)
Remembering. Hua Lian Ba Er, o 4851, oppure ancora Names Project. Ha assunto forme parallele, complementari e differenti la vocazione sociale e d'attivista di Ai Weiwei. Il post-terremoto del Sichuan ha innescato nell'artista cinese un sacro e inarginabile fuoco interiore. Passione per la verità, necessità di non arrendersi all'occultamento di numeri e dramma da parte del Partito. L'artista contro il regime. Numeri, immagini, ricerca e arte per restituire un nome, uno spazio nel mondo, un piccolo risarcimento morale alle migliaia di bambini morti sotto le macerie delle scuole crollate. Morti silenziate dalla Repubblica Popolare. Nessun bilancio ufficiale. Ai non ci sta. Mette in piedi un team di ricercatori nel suo studio e il risultato è il toccante e sterminato elenco di nomi. Fogli bianchi appesi ad un muro dello studio di Ai. Uno spazio per ognuna delle piccole vite spezzate che la madrepatria Cina non voleva emergessero. E' l'artista ad arrivare là dove i diritti umani negati di un Regime non consentono di poter essere. Nella verità. Ma il colossale Names Project targato Ai Weiwei, si diceva, ha assunto multiformi facce. Quella più filologicamente artistica ha preso vita a Monaco di Baviera, dove nel 2009 tappezzò la facciata principale della Haus der Kunst con migliaia di zainetti colorati. Uno per ogni bimbo morto nel terremoto del Sichuan. Il risultato, folgorante, è Remembering. Un'installazione artistica che, nel colore, fa emergere la scritta "Ha vissuto in questo mondo felicemente per sette anni". Parole fatte proprie da Ai, una volta ascoltate da una madre orfana del figlio perso sotto le macerie. E' arte. E' la più efficace forma d'arte che il mondo globalizzato possa esprimere.
"Remembering". Ai Weiwei, Haus der Kunst.
Monaco di Baviera, 2009.
(Foto imageobjecttext).
Rottura degli schemi, a maggior ragione se imposti da una dittatura mascherata e convertita al dio denaro. La dignità per le vite perdute, null'altro. Di Ai Weiwei colpisce anche l'utilizzo del mezzo. Dell'immagine, della Rete, dei social. Tutto è documentato e spesso twittato in diretta. Nella lotta al Regime, il contenuto può far la differenza. Il contenuto in immagine che Ai preferisce è il documentario. 4851 è un lungometraggio nel quale scorrono senza soluzione di continuità i nomi delle piccole vittime del terremoto. Hua Lian Ba Er è invece il resoconto documentaristico di tutta la maxi-indagine condotta dal team di Ai alla ricerca della verità di un dramma del quale la Voce ufficiale unificata del Partito nulla voleva far emergere. A colmare le sconfinate lacune morali delle istituzioni, ha risposto Ai Weiwei, l'artista.



Hua Lian Ba Er, documentario realizzato nel 2009 da Ai Weiwei e i suoi collaboratori, sull'indagine condotta dall'artista-attivista cinese per restituire un nome a tutti i bambini morti nel terremoto del Sichuan del 2008.




4851, lungometraggio realizzato nel 2009 da Ai Weiwei, dove scorrono senza sosta i nomi delle migliaia di bambini morti nel terremoto del Sichuan.

Pacific trash vortex

Riproduzione grafica del posizionamento del Vortex.
(Foto http://local-info.co.za/)
Banane, radicchio, arance, mozzarella e piadine. Una scarna lista della spesa qualunque non tiene conto del primo prodotto che, più o meno inconsapevolmente, acquisteremo una volta al supermercato. La plastica. Tutto ciò che acquistiamo è rigorosamente imballato e decenni di miopia ambientale ora chiedono il conto. Il conto in questione può avere molti nomi, uno dei tanti - probabilmente il più salato - si chiama Pacific Trash Vortex. Una enorme isola di immondizia e plastica nel bel mezzo dell'Oceano Pacifico. Una distesa immane di scarti del mondo globalizzato, della quale i più nulla sanno. I colpevoli siamo noi. Nessuno escluso. Ma non è la determinazione di responsabilità il presente intento. Uno studio delle Nazioni Unite nel 2012 stimava la presenza di 46 mila pezzi di plastica per chilometro quadrato negli Oceani. Un numero destinato, sempre secondo l'indagine Onu, a raddoppiare nei prossimi dieci anni. Non solo, ammonterebbero a cento milioni di tonnellate, i materiali dispersi in acqua. Lo scempio ambientale ha mille padri, ma nasce - oggi come ieri - nel nostro quotidiano gesto di fare la spesa e nella successiva inciviltà dello smaltimento delle plastiche. Già nel 2007 si denunciavano numeri da incubo per il Pacific Trash Vortex: un diametro di circa 2500 chilometri, profondità di 30 metri e composizione per l'80% di plastica.


Il video di Greenpeace (http://www.greenpeace.org/international/en/campaigns/oceans/fit-for-the-future/pollution/trash-vortex/) mostra, attraverso una simulazione, gli effetti e l'evoluzione temporale del Pacific Trash Vortex.

La memoria è geografica e labile

La prima pagina del "New York Times" del 29 giugno 1914.
Con la notizia dell'assassinio dell'arciduca
Franz Ferdinand a Sarajevo. (Foto coaloalab.altervista.org)
La memoria è geografica. Si ricordano le sensazioni che si vivono, gli oggetti che si toccano. E' un fattore innanzitutto fisico. Ma la memoria è prima ancora labile. La voracità del flusso di informazioni - spesso superficiali - che inondano la civiltà contemporanea incentiva la perdita di pezzi, anche rilevanti, della memoria. Cento anni bastano a cancellare nella memoria collettiva di un popolo buona parte del sangue versato? Sembrerebbe di sì.

Nel 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, nel 1915 l'Italia entrò nella Grande Guerra. Un conflitto che segnò un cambio epocale. Si entrò di fatto nell'era contemporanea. Dall'età imperiale a quella che poi avrebbe portato a industrializzazione e globalizzazione.

Ma il fatto che, tre generazioni dopo, agli italiani vada spiegata la Grande Guerra è un dato estremamente significativo, dove le componenti della memoria si intersecano. Geograficamente la memoria varia. A Trieste, Trento e sulle vette alpine non c'è bisogno di doverlo spiegare quel conflitto. In buona parte del Belpaese, a differenza della Seconda Guerra Mondiale, sì.

La prima pagina del "Corriere della Sera"
del 29 giugno 1914.
Inciderà certamente la storicizzazione seguente che indirizza e influenza la cultura di massa, ma non è una condizione sufficiente a spiegare come in un secolo la memoria di disumane fatiche, eroiche battaglie e complesse continentali dinamiche che a ben vedere non sono ancora concluse, sia del tutto sparita.

E' forse necessaria una riflessione sull'insufficienza di attenzione e approfondimento che la cultura e l'informazione massificata sta producendo.

Ci riempiamo le menti, gli occhi e le pance di parole, titoli, scoop e immagini, tutte destinate a lasciare prontamente il posto a nuove, fresche, parole, immagini, scoop, in grande parte superficiali. La massificazione dei contenuti può uccidere il contenuto stesso e la vittima è la memoria.