La fioraia di Sarajevo e la marcia dei Cinquecento. Incontro con Mario Boccia

Questa è la storia di Svcera. La fioraia di Sarajevo. E' una delle foto simbolo dell’assedio alla capitale bosniaca. L’ha scattata Mario Boccia, fotoreporter italiano. Lui chiese alla donna la nazionalità e il nome. Serba, musulmana o croata? Svcera, la fioraia. La naturalezza che una volta di più riesce a destrutturare l’inganno bellico dell’odio. La fioraia della città assediata che componeva mazzi di fiori di carta, una volta che la follia omicida degli assedianti aveva estirpato gli ultimi fiori di Sarajevo.

Boccia e con lui Raniero La Valle e altre centinaia di italiani furono protagonisti della storica marcia dei Cinquecento. Pacifisti dall’Italia alla Sarajevo assediata con la convinzione di poter cambiare le cose in un mondo che con la Guerra dei Balcani stava per chiudere un'epoca storica, per sempre. Don Tonino Bello, capofila della spedizione, scrisse nel suo diario di Sarajevo: “Nella città assediata trovammo il trionfo della convivenza delle diversità”.

Svetlana Aleksievič, l'umanità e l'inchiesta

Svetlana Aleksievic
Premio Nobel per la letteratura 2015
"E' forse questa oggi la più autentica letteratura", scrive così Claudio Magris nella prefazione al libro "Vittime" di Massimo Nava, riferendosi all'inteso e profondo lavoro di scavo del corrispondente del Corriere della Sera alla ricerca della verità che si cela dietro i più grandi drammi e conflitti della contemporaneità. Ho voluto introdurre con parole italiane, il Premio Nobel per la letteratura 2015 Svetlana Aleksievič. Bielorussa, voce sempre alla ricerca della verità. Per avvicinare la tipologia di letteratura che Aleksievič incarna. Inchiesta giornalistica che fa del tempo passato nei luoghi e tra la gente una chiave determinante. Svetlana è rimasta tre anni nei villaggi di Černobyl'. Diventa sorella degli abitanti, ne riceve la fiducia e ne diventa insuperabile e globalizzata voce. "Il suo strumento d'indagine è l'ascolto, la capacità di stare a lungo, indifesa e modesta, accanto a tante persone comuni", ha scritto Maria Nadotti sul Corriere della Sera a commento del Nobel. Come Nava una voce non allineata alle "verità" diffuse dai media internazionali, una letteratura umana che affonda le proprie radici nell'inchiesta giornalistica.

Ha indagato le pieghe più drammatiche della storia russa sovietica e post-sovietica. Boicottata e poi bandita dalla sua Bielorussia, Svetlana Aleksievic ha vissuto a lungo in esilio forzato. Ma non ha mai attenuato la sua voce di denuncia. Perché in Russia parlare dei crimini di Stalin è ancora un tabù e la vittoria sul nazismo è ancora usata come pretesto per la creazione di un nuovo impero e per la giustificazione di una nuova guerra. Putin – dice Svetlana – ha detto al popolo quello che il popolo voleva sentirsi dire. Ma la popolazione non parla mai di religione né di Putin. E se con la perestrojka in piazza c’erano migliaia di russi, dopo l’assassinio di Anna Poltikovskaja erano solo in 50. Ma la sua voce non si attenua, nemmeno sul disastro di Cernobyl, 30 anni dopo.

A Svetlana Aleksievic è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura 2015. Un mese fa a Mantova ospite del Festival aveva attirato l’attenzione della cultura italiana e internazionale. “Per me non è tanto importante che tu scriva quello che ti ho raccontato, ma che andando via ti volti a guardare la mia casetta, non una ma due volte”. La voce della contadina bielorussa, vittima dell’utopia comunista, che affidava la sua disperazione a Svetlana, non ha mai smesso di crescere. Cernobyl, il modello comunista, le guerre intestine. Sempre scomoda la verità, in Unione Sovietica come nella Russia di Putin e degli oligarchi del gas. L’Accademia svedese ha premiato la Aleksievic per la “sua polifonica scrittura nel raccontare un monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi”. Con il Premio Nobel alla Aleksievic, il pensiero non può non tornare ad Anna Poltikovskaja, che pagò con la vita la ricerca della verità nella Russia di oggi.


Il Kabaddi a Gonzaga. Riconoscimento culturale al contributo indiano e pakistano all'agricoltura

Il kabaddi.
Foto Bhaktalsports.com
Un anno fa, a due passi dal Po, alla riapertura di uno dei tanti caseifici lesionati dal terremoto che nel 2012 mise in ginocchio la Bassa mantovana, un casaro avvicinò il cronista e indicò il ragazzo incaricato di tagliare, con l’arte antica, la prima forma di Parmigiano della nuova vita della cooperativa sociale. “E’ il nostro Messi”, mi dissero. Un ragazzo indiano di trent’anni, considerato dai maestri casari mantovani il migliore del suo tempo. Ora il Messi indiano e i suoi fratelli vengono omaggiati, nella propria lingua sportiva, dall’agricoltura mantovana. La Fiera Millenaria 2015 mette in calendario il trofeo di kabaddi, sport di contatto asiatico. Ecco il derby India-Pakistan a Gonzaga, celebrando il fondamentale contributo delle due etnie all’agricoltura mantovana. All’interno della Millenaria di Gonzaga, uno dei principali appuntamenti fieristici dell’agricoltura del Belpaese, il primo storico derby India-Pakistan in terra italiana. Immaginate una fusione tra i principi del rugby e quelli della lotta a mani nude. Traslata di decine di migliaia di chilometri. Ne esce il kabaddi, sport di contatto che impazza nel continente indiano, già protagonista ai Giochi asiatici. I princìpi che diedero genesi al kabaddi germogliarono sia nel Tamil Nadu, stato indiano del Sud, che nel Punjab, macroregione asiatica divisa tra India e Pakistan. Ad inizio settembre il primo trofeo Fiera Millenaria ha messo di fronte rappresentative di India e Pakistan. E’ il premio, il riconoscimento sportivo e ancor prima culturale del contributo imprescindibile delle immigrazioni indiane e pakistane nella Bassa Padana, etnie che da decenni ricoprono figure chiave nella gestione delle stalle mantovane, e dunque nell’agricoltura mantovana. Nella Bassa mantovana gli indiani sono presenza costante da oltre un decennio. L’osservatorio Provinciale dell'Immigrazione registrava un anno fa la presenza indiana al 33 percento nel piano di zona di Suzzara tra gli immigrati (seguita tra le altre etnie dal Bangladesh all'11,4 percento e il Pakistan al 10) e al 29 percento nel distretto di Viadana (Pakistan al 3%). Due tempi da venti minuti, 12 giocatori per squadra a combattere per guadagnare più punti, per celebrare l’integrazione attraverso lo sport.

Alma Catal, la risposta

Alma Catal in un frame del documentario
Miss Sarajevo di Bill Carter. Foto Radiosarajevo.ba
Prima di tutto è necessario il riferimento al mezzo. Ho conosciuto il volto di Alma grazie allo straordinario lavoro di Bill Carter. La premessa qui è doverosa. Il mezzo è la chiave. Alma è l'adolescente protagonista di Miss Sarajevo, documentario del fotoreporter americano sull'assedio alla città bosniaca.

Il volto di Alma Catal è la risposta al fondamentalismo che negli anni Novanta avrebbe voluto cancellare la Bosnia Erzegovina multietnica. Era ancora una bambina quando, con coraggio, lucidità, intelligenza e personalità, nel dramma dell'assedio con parole semplici rispose con la più destrutturante naturalezza alle domande e alla telecamera di Bill Carter. La semplicità contro la follia e la strategia dell'odio delle milizie serbo-bosniache. "Sono musulmana, ma vado in chiesa e in moschea. Credo in Dio, c'è solo un Dio". Lo scandì, giovanissima, con una eccezionale padronanza della lingua inglese. Segno di uno stato di salute e avanguardia straordinario della gioventù sarajevese di inizio anni Novanta. La cultura che risponde al razzismo. Paradigma che potrebbe essere facilmente trasportato all'attualità del dramma dei migranti che scappano da guerra e fame in direzione del Vecchio Continente.

"Il rock e il metal ce li hanno insegnati i profughi", di recente un amico croato mi ha raccontato di come le comunità e le città croate, all'inizio della guerra furono estremamente arricchite dalle conoscenze musicali, linguistiche e modaiole dei giovani profughi bosniaci che ospitavano. Scappavano dalla guerra ed esportavano la loro cultura. Parrebbe un ossimoro, invece è un dettaglio poco noto dell'assedio di Sarajevo. La capitale bosniaca nella tragedia emanava una meravigliosa aura culturale, che i serbo-bosniaci di Karadžić avevano voluto simbolicamente annientare con la tragica distruzione della biblioteca nazionale di Sarajevo dell'agosto 1993. Dalle montagne hanno messo a fuoco la città di Sarajevo, ne hanno ferito profondamente l'anima ma non ne hanno cancellato la cultura.

Quel volto, genuino, di Alma è la miglior risposta - in presa diretta - a chi voleva cancellare l'identità, l'esempio vincente di multiculturalità della Sarajevo cosmopolita. Alma, e con lei gli altri giovani sarajevesi assediati, parlava inglese, cantava gli Ace of Base, il pop europeo e il rock americano all'interno di un'automobile sventrata dai mortai e mostrava indice e medio alzati alla telecamera di Bill Carter. Con il passare del tempo della città assediata il suo umore cambiò, il suo viso passò da quello coraggioso e spensierato di bambina a quello preoccupato e disincantato dell'adolescente cresciuta troppo velocemente. Il documentario la segue. Lei sopravvive. Oggi è adulta, vive a Sarajevo e (naturalmente) insegna inglese.

"Is there a time for first communion. A time for East 17. Is there a time to turn to Mecca. Is there time to be a beauty queen". Versi poetici nella canzone Miss Sarajevo degli U2, ma la vera poesia è Alma. La risposta.


(Di seguito due brevi documentari di Bill Carter che testimoniano il reincontro di Alma con gli U2 ad un concerto a Zagabria)

Rifugio, l'ultima alternativa al turismo di massa in montagna

Il rifugio Vajolet, nel cuore delle Dolomiti. A 2.243 metri.
L'antica civiltà montanara è un patrimonio da esplorare e condensa in sé valori che spesso la modernità ha cancellato, colpevolmente sostituito o riposto in una polverosa e semidimenticata soffitta. Esplorare la vita di montagna, o quel che ne resta, è un eccellente viatico per ritrovare alcuni degli inestimabili valori che racchiudeva e, talvolta, ancora racchiude.

Come ben descritto nel tempo da saggi e periodici specializzati, si possono distinguere tre fasi della storia recente della vita in montagna. La prima è la civiltà montanara classica: quella della fatica, della povertà e del lavoro manuale che piegava animo e schiena. Scomparsa tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo. La seconda quella, sorta a inizio Novecento e poi rilanciata dopo la Seconda guerra mondiale, del primo turismo alpino. Con la nascita di figure nuove, come la guida alpina, ad accompagnare ad altissime quote rappresentanti di benestanti famiglie o pionieri dell'alpinismo in quota. Infine la terza, quella del turismo di massa e della cementificazione selvaggia dei centri in valle. Le seconde case in altura, gli alberghi figli del gigantismo edificatorio, e l'agosto da tutto esaurito a duemila metri. Dalla secolare detenzione di altissimi valori alla perdita della bussola.

Ritrovare un angolo intatto è oggi molto complesso. Una minima riproduzione di quanto in grossa parte perduto è rintracciabile nella vita di rifugio. Un'ultima alternativa al turismo di massa in alta quota. E' una concezione diversa, tuttora distante, di soggiorno nell'imperante turismo di massa. Ritrovare parte della pura civiltà della montagna presuppone due imprescindibili condizioni: la preclusione all'arrivo diretto di automobili e la distanza dall'arrivo diretto di impianti di risalita. Un luogo che possa essere privo di accesso diretto di macchine e funivie o seggiovie, specie la sera, è ancora in grado di regalare scorci di inarrivabile purezza. Le esperienze a rifugi come il Vajolet o il Cauriol nei gruppi di Catinaccio e Lagorai oppure Selvata e La Montanara nelle dolomiti del Brenta non lasceranno insensibili gli animi. A patto di essere capaci a rinunciare, o quanto meno mettere in discussione il superfluo e ritrovarsi, per una volta, faccia a faccia con sé stessi.

Il presente articolo non vuol essere una lista di consigli su questo, quello o quell'altro luogo da visitare. Per consultare un bel blog che invece accoglie gli amanti della montagna tra rifugi, escursioni e immagini, vi rimando al sito: http://miemontagne.blogspot.it/. 

Raccontare un percorso, anzi scriverne uno

Mantova Beat&Bit
casa editrice Sometti.
Recentemente ho partecipato ad una bella cena, che non avrebbe conosciuto esistenza, forma e partecipanti senza un libro. Un saggio, per la precisione. La saggistica da sempre racconta e analizza tracciati e percorsi, ma talvolta può anche crearne di nuovi, specie se affonda le mani nella più profonda contemporaneità. Quando al racconto riescono ad affiancarsi la partecipazione attiva e la condivisione delle storie e delle vicende narrate, significa aver centrato un obiettivo probabilmente più rilevante di quello, iniziale, letterario.

Non semplice ordine ed elencazione della creatività, ma lo strumento per avvicinare stelle tra sé distanti e avvicinarne i lontani singoli percorsi. Mantova Beat&Bit di Fabio Veneri (a margine trovate il servizio realizzato nei mesi scorsi di presentazione dell'opera per Telemantova) ha centrato in pieno l'obiettivo descritto. Da saggio, il libro diventa strumento. Le presentazioni, solitamente mere vetrine, trasformate in punti di partenza su nuovi affacci altrimenti non percorribili. Ecco dunque prendere forma una cena altrimenti impensabile, testimonianza di quanto possa creare un saggio sulla creatività. Senza non ci sarebbero state posate, primi, secondi, caffè e amari.

Marco Sguaitzer, il giro del mondo contro la Sla

Le parole di Marco Sguaitzer hanno fatto il giro del mondo. In faccia alla Sla, che lo costringe all'immobilità. La straordinaria forza dell'ex calciatore di Mantova e Suzzara è la rigenerante benzina che sta caratterizzando una condivisione spontanea e allargata in Rete. Sull'edizione nazionale della Gazzetta dello Sport curo un pezzo sul successo e la condivisione del libro di Marco "Senza limite alcuno", pubblicato dalla casa editrice Sometti.  Facebook il mezzo utile alla causa, gli amici di una vita a postare le foto del suo libro dai cinque continenti. Con l’intensità del messaggio ha smosso l’anima di una città intera, smuovendola dall'intorpidimento, come trascinandola fuori dalle proverbiali nebbie. Le parole di Marco sono profonde, ne avevo giù parlato qui analizzando la forza del suo "grazie". Nel suo blog di recente scrive: “Giunto al bivio vita/termine – scrive Marco – decisi di continuare nella impari lotta”. La sua lotta ora ha toccato i cinque continenti, in faccia alla Sla.

Il libro di Marco Sguaitzer a Bangalore, in India.

Il pezzo su Marco Sguaitzer, sull'edizione nazionale della Gazzetta.

Iveco Suzzara, la squadra della fabbrica

Iveco Suzzara. La particolarissima storia della squadra di calcio mantovana di Seconda categoria nata in fabbrica nel 2011. Nello stabilimento della Iveco, che ora è scelto da Fiat come unico centro di produzione europea del furgone Daily.

E' una storia di calcio, orgoglio, identità e lavoro. Con un richiamo all'affascinante vicenda della Torpedo Mosca nell'Unione Sovietica. Come l'Iveco: la squadra della fabbrica.

Ne parlo in un articolo pubblicato sull'edizione lombarda della Gazzetta dello Sport. Il pezzo integrale sulla vicenda dell'Iveco Suzzara è consultabile liberamente dall'archivio online di Gazzetta.it.

Deserto alimentare

Verdure introvabili nei deserti alimentari degli States.
(foto leverduredelmioorto.it)
Il deserto alimentare esiste dove in un raggio di 15 chilometri non risulti possibile trovare e acquistare frutta e verdura e cibo sano. Parrebbe inverosimile l'esistenza di deserti alimentari nella società del benessere. Invece nei quartieri più disagiati di New York sono segnalati e monitorati deserti alimentari, dove la cultura del mangiare sano è totalmente inesistente.

Il termine deserto alimentare (urban food desert) è stato coniato da una commissione incaricata dal Governo britannico del 1995 sulle abitudini alimentari. E' un effetto collaterale della civiltà contemporanea e dell'imperare delle catene di mega centri commerciali e di fast food. Gli Stati Uniti i principi del paradosso. Uno studio della Kansas State University rivela che dal 2006, 82 negozi di generi alimentari su 213 che servivano le comunità locali di meno di 2.500 abitanti dello stato del Kansas, hanno chiuso. Così le popolazioni locali sono costrette a muoversi, guidando le proprie automobili per 10, 15, 20 chilometri alla ricerca di cibo da acquistare e non è detto che tra i generi alimentari sui banchi vi siano frutta e verdura.

Le conseguenze naturali sono aumento di obesità, malattie cardiocircolatorie e, naturalmente, inquinamento. Sul tema c'è un pregevole documentario, realizzato nel 2012 da Romain Bolzinger. "USA: Battling obesity".

Maderşahî, un tweet per assicurare un "dopo"

Un dopo in faccia a chi voleva scrivere la parola fine. Suruc è una piccola cittadina del sud della Turchia, a pochi chilometri dal confine dalla Siria. La strage del 20 luglio ha ucciso 32 giovani ragazzi curdi. Il kamikaze vicino all'Isis si è fatto esplodere uccidendo 32 persone e ferendone un centinaio. Suruc da mesi ospita migliaia di rifugiati siriani provenienti da Kobane. L'esplosione è avvenuta davanti al Centro culturale Amara, dove erano riuniti centinaia di ragazzi della SGDF, l’Associazione dei giovani socialisti turca.

32 le vittime. Un tweet che ha fatto il giro del mondo, quello della giovane Maderşahî Barajyikan che ha voluto pubblicare il selfie dei ragazzi di Suruc, dopo la strage. Un fermoimmagine per non abbassare la testa davanti al terrore. Volevano portare sostegno, viveri e giochi ai bimbi di Kobane in Siria, li hanno sterminati. Ma il tweet di Maderşahî ha la forza di scrivere un dopo rispetto alla strage in risposta a chi voleva scrivere la parola fine e, contemporaneamente, di alzare il tiro sulle responsabilità del Governo Erdogan.

Ivan Juric, intervista al croato a vent'anni dalla Guerra dei Balcani

Ivan Juric, foto Tuttomantova.it
Un'occasione perduta. Il dopoguerra dei Balcani, nella visuale croata di Ivan Juric, si è tramutata in una chance di arricchimento per pochi, per chi già comandava sotto il regime comunista di Tito e ha punito, anche dopo il sangue del conflitto, la popolazione.

Una questione di soldi e potere, come sempre. Ivan Juric è una piacevolissima eccezione all'interno del mondo del calcio. Carattere sincero, trasparente, duro. Persona profonda che riesce sempre a sorprendere.

Nell'intervista realizzata per Telemantova a inizio giugno 2015 un'appassionata analisi di quello che è significato il conflitto per la Jugoslavia e di quanto il calcio abbia inciso nelle dinamiche pre e postbelliche. Il dramma di Vukovar, gli interrogativi di Mostar e la sensazione che le ambizioni di indipendenza e autonomia di popoli siano stati sfruttati, col sangue, da chi voleva mantenere il potere.

Viaggio a Sarajevo

Palazzo popolare a Grbavica, giugno 2015.
Quando una donna bosniaca ti invita a prendere un caffè ti regala un lasciapassare per un antico e incantato rito, fatto di pause e tempi giusti per il racconto. E Sarajevo di racconti trasuda. Il caffè che mi ha definitivamente aperto l'anima della città l'ho bevuto a Grbavica. Non un quartiere qualsiasi. Da lì partì l'assedio dell'Armata Federale ultranazionalista, scesa dai monti e dal quartier generale di Pale, sulla città della convivenza. Pulizia etnica e cecchini sui palazzi. Colpi di mortaio che le aree residenziali portano diciannove anni dopo il cessate il fuoco ancora, evidenti, sulle strutture.

Sarajevo è ripartita. Il mio viaggio nei Balcani è stato un percorso alla ricerca della ripartenza di una terra violentata. Nel silenzio e nell'immobilismo o talvolta con la colpevole collaborazione dell'Occidente. Ce la sta facendo, pur tra mille ostacoli e difficoltà, tra evidente povertà e corruzione dilagante, a ritrovare l'equilibrio sul quale è sempre vissuta. 

A Sarajevo nulla è banale e non potrebbe esserlo. Tutto è estremamente complesso e intricato. Territorio montuoso e impervio, antico cuore dell'incontro tra Oriente e Occidente. Matrimoni misti, due alfabeti correnti (al latino si affianca il cirillico), convivenza spalla a spalla tra etnie culture e religioni di origini distanti. Ribalta i concetti, le incasellate visuali occidentali. "Qual è la tua religione?", quesito legittimo subito destrutturato dalla complessità balcanica: "Non è facile risponderti, io ne ho quattro in casa". Qui non trovano dimora le preconfezionate etichette occidentali.

Sarajevo ha in sé il passato, perché porta sulle spalle con orgoglio e saggezza le contaminazioni di quattro secoli di dominazione turca e al contempo consente di respirare cultura slava e accenni di Mitteleuropa. Da Sarajevo intravedi il futuro perché è l'esempio, talvolta non accettato, di come il mondo dovrebbe e potrà essere. Convivenza e condivisione, senza ghetto alcuno. Non troverete lungo la Miljacka quartieri vissuti esclusivamente da cristiani o musulmani. Il melting pot della capitale bosniaca è, prima di tutto, concepito e vissuto dal punto di vista residenziale. Una coabitazione che introduce inevitabili complicazioni, ma nella sua ultracentenaria storia i veri problemi Sarajevo li ha sempre visti arrivare dall'esterno, mai dal suo cuore multietnico. Sarajevo fortunatamente è il presente. E' ripartita, dopo millequattrocentoventisei giorni di assedio, dopo la guerra che ha messo in ginocchio la Bosnia Erzegovina e la pulizia etnica compiuta dai cetnici.

Tre tazzine. Un caffè a Grbavica. Con Edina e Federica.
In quel caffè a ben vedere c'è tutto: il rituale di concedersi il tempo per una pausa, i silenzi e la narrazione orale, ogni giorno. Un tempo lento, lontano dall'accelerata quotidianità Occidentale. Inaccettabile per la società del consumismo sfrenato e anche per gli ultranazionalisti di Radovan Karadžić che rinnegarono, a colpi di artiglieria pesante, i concetti di città e di convivenza, bombardando e fucilando la secolare anima sarajevese.

Sarajevo ti resta addosso e così il rientro dai Balcani è denso di storie, rigorosamente raccontate, di vite e di sguardi. Dermina, Edina, Hussein, Dina, Alma e tutti gli incroci di un viaggio scomodo, intenso e totalizzante. Con le visuali bosniache che viaggiano diametralmente opposte a quel che accade fuori dai Balcani. Tito è tuttora considerato da Sarajevo un eroe (alla sola pronuncia del suo nome nella non troppo distante Trieste compaiono incubi e balzano alla memoria stragi e la drammatica pagina delle foibe), colui il quale riuscì a garantire pace, stabilità e normalità all'intricata miscela d'anime e culture bosniaca. Qui, dove i vicoli sono pieni di immagini di Francesco, primo Papa dopo Giovanni Paolo II, a visitare Sarajevo, l'Unione Europea è ancora considerata un'opportunità. Musulmani che votano il candidato di origine cristiana "perché ritenuto il meno corrotto tra i candidati" o le foto di Bill e Hillary Clinton appese ai bazar e nei caffè: unici leader incorniciati nelle taverne di Baščaršija, perché "seppur bugiardi, i più bugiardi al mondo", gli americani sono quelli che hanno dato il via ai bombardamenti sulle postazioni di Karadžić. L'eredità dell'intervento rimane pesante, perché dell'uranio impoverito è piena la montagna bosniaca. "Toglietevi le scarpe, lavate i vestiti", ma delle misurazioni effettive poco o nulla trapela. Ma Sarajevo all'America è legata a doppio filo, basti pensare che ancora oggi Vilsonovo šetalište è uno dei viali più ammirati, intitolato a Woodrow Wilson, ventottesimo presidente statunitense: colui che nel 1917 dichiarò guerra all'impero Austro Ungarico. In quel primo conflitto mondiale che nacque proprio sulla Miljacka con il colpo di pistola di Gavrilo Princip. "I Balcani producono più storia di quella che riescono a mangiarne", la nota dichiarazione di Winston Churchill riassume efficacemente i mille intrecci di storia sarajevese.

La visuale dello statista britannico è corretta ma parziale. I Balcani sono, a ben vedere, un frullatore accelerato di storia. Se il tempo della quotidianità bosniaca concede pause giuste e doverose, la scala più ampia fornisce una condensazione di eventi impensabile ad altre latitudini europee. Due velocità, in una. Con una costante. "Nel male c'è sempre il bene", mi ha detto Edina a Grbavica. Una verità generalizzabile che a Sarajevo trova maggior forza. L'unicità bosniaca ha visto tre guerre (due conflitti mondiali e l'assedio più lungo della storia moderna) in ottant'anni. Scandire quella verità tra i palazzi martoriati di Grbavica ha un'altra eco. Perché lì, tra le mille storie che mi porto dentro, le schegge di un colpo di mortaio dei serbi avevano dilaniato il corpo di un sarajevese e il suo ricovero all'ospedale, costringendo il padre musulmano a seguire le sorti del figlio ferito, salvò in seguito la vita al padre, che a sua insaputa uscì da Grbavica qualche ora prima della pulizia etnica delle milizie di Karadžić. "Nel male c'è sempre il bene". Eccola l'anima bosgnacca capace di guardare avanti, nonostante l'assedio di Sarajevo, il genocidio della vicina Srebrenica, l'uranio impoverito e la corruzione oggi dilagante. 
Tramonto su Sarajevo. Giugno 2015.

Grazie, senza limite alcuno

Tutte le glorie dell'ac Mantova in campo
con Marco Sguaitzer.
"Grazie. E' una parola che uso spesso ultimamente. Grazie a chiunque creda nella lotta contro questa maledetta malattia. Grazie a tutti coloro mi hanno regalato un sogno, stasera. E grazie alla Te, che non chiamo curva. Sarebbe riduttivo". Le parole sono di Marco Sguaitzer, ex calciatore di Mantova e Suzzara negli anni Novanta, colpito dalla Sla dal 2008. Usa le gentilezza contro la stronza. Si commuove nel sentire pronunciate le parole da lui scritte. E' l'esempio, nella difficoltà. Il bagno di condivisione della serata della SLa partita del 25 maggio al Danilo Martelli un punto di ripartenza. 
La copertina del libro


Quel "grazie" è il riassunto più efficace di un animo, inarginabile, che sa trascinare e ribalta visuali e preconcetti. Sguaitzer nei mesi scorsi ha dato alle stampe un libro intenso (Senza limite alcuno, casa editrice Sometti), intriso di contrastanti sensazioni e inestinguibile passione, attraverso il quale abbaglia con il suo amore per la vita.

Siamo tutti immobili

L'installazione di Ai Weiwei
nella sala dei Cavalli a Palazzo Te. Mantova
Siamo tutti immobili, ordinati, numerati, fermi. 91 cavalli, 13 file per 7, impietriti. E' la società di oggi, manipolata e comandata da governi, partiti, regimi, Stati.

Ai Weiwei ha scelto di graffiare nel dialogo artistico con Giulio Romano, a Palazzo Te a Mantova. Critica al cuore della società contemporanea, eccessivamente succube di chi muove i fili, tanto da risultarne immobilizzata, anche nel pensiero.

Il contatto diretto con l'accelerata produzione di Ai Weiwei lascia una sensazione profonda di immobilismo, affiancata dal giogo e l'assoggettazione che il singolo individuo subisce oggi. L'abbagliante luce della civiltà della globalizzazione e delle possibilità di spostamenti continui lasciano un amaro controcampo di buio e costrizioni. La firma è dell'artista che più di tutti non si allinea alla Cina moderna, post-comunista e illiberale.

Joan Kagezi, uccisa perché intralciava i piani criminali

Joan Kagezi (Foto Newvision.co.ug)
"Chissà che me pensavo, alla fine volete togliere di mezzo chi intralcia i vostri piani", così nella serie televisiva Romanzo Criminale, il Libanese alla riunione dell'Estrema Destra romana che metteva nel mirino il giudice Emilio Donati. La fiction, ben diretta, semplifica certe complesse dinamiche sociali e criminali, che non hanno latitudini né esclusività ma anzi si ripetono ciclicamente.

Joan Kagezi. Non sentirete molto parlare di lei in Occidente. Ne ha scritto la BBC, in Rete c'è un articolo della CNN, ne ha parlato Sette. In Italia non molto altro. Joan Kagezi è stata assassinata. Procuratrice antiterrorismo in Uganda, è stata assassinata a fine marzo. Un omicidio portato a termine dai terroristi islamici di Al Shabaab. Gli stessi che hanno massacrato 148 cristiani in Kenya non più tardi di un mese fa.

Uganda
Un commando in moto ha affiancato l'auto della procuratrice e davanti ai tre figli le hanno sparato due volte alla testa, questa la ricostruzione dei media.

Nulla di clamoroso nella forma, nessun gruppo criminale, né terrorista, esce da certe dinamiche. Togliere di mezzo chi intralcia. Il ricordo delle vittime può essere l'unico antidoto alla caduta nell'oblio.

Un'idea di Europa

Uno screenshot del portale
Osservatorio Balcani e Caucaso.
Si parla tanto di Europa, spesso a vuoto. Il fraintendimento più diffuso nell'opinione pubblica è quello che oggi porta ad avvicinare al termine Europa unicamente il profilo economico, dominante nelle politiche dell'Unione Europea. Responsabilità comunicative e mediatiche, che però sottolineano la mission prevalente, se non addirittura invadente, dell'UE come la conosciamo oggi. Il giornalista e scrittore Paolo Rumiz in più occasioni ha sottolineato come sia molto più semplice avvicinarsi al significato profondo del termine Europa, guardando agli stati dell'Est del vecchio continente. Per centrare l'obiettivo e avvicinarsi in maniera tangibile al significato di Europa arriva in soccorso un eccellente portale d'informazione. Avanguardia giornalistica 2.0. Un'idea estremamente efficace di Europa la fornisce infatti un progetto web nato nel 2000. L'Osservatorio Balcani e Caucaso (www.balcanicaucaso.org), che fonda le proprie radici nella trentina Rovereto e guarda, per missione e anima, a tutti i territori del sud-est europeo e alle relative contaminazioni mediterraneo-asiatiche. La cronaca dalle capitali della Mitteleuropa è fondamentale per cercare di capire quale futuro possa avere l'Unione Europea, oggi perlopiù spettatrice delle dinamiche politiche - mondiali come interne (la più evidente è certamente quella relativa al decennale immobilismo di Bruxelles sul dramma dei migranti nel Mediterraneo) - proprio perché in sé non riesce ancora ad assicurare il giusto spazio per l'anima delle proprie radici. Senza radicamento non si può avere slancio. Pubblicazioni, reportage, documentari, corrispondenti. Diritti umani, integrazione interetnica e interreligiosa, cronaca e derive di tutto ciò che sta a Est. Da Trieste a Sarajevo e Mostar, dalla Romania alla Cecenia, dalla Croazia alla Grecia, passando per l'Armenia. L'Osservatorio è un evidente esempio dell'approfondimento di cui l'Europa ha bisogno per trovare o ritrovar sé stessa. Un think tank che non a caso ha preso piede in terra trentina, là dove con la Prima guerra mondiale il Vecchio continente cambiò la storia. E, oggi, grazie a quelle terre l'Europa ha un'opportunità per riprendere il filo delle proprie radici.

Lorenteggio, #573

Una delle piante che verranno
sradicate. (Foto Pagina Facebook
Comitato Lorenteggio Foppa
Washington)
Le opere pubbliche utili sono le benvenute. Gli effetti collaterali di ogni opera sono da monitorare con attenzione. Lorenteggio, periferia sud di Milano. I cantieri della futura metropolitana M4 dovrebbero portare allo sradicamento di 573 alberi. Alcune piante, sembra le più giovani, saranno poi rimesse a dimora. L'allarme però, nel quartiere, è scattato. #573 l'hashtag comparso sulle piante a rischio lungo le vie dei cantieri della M4. Il verde, nel Novecento, è stato troppe volte sacrificato sul piatto dell'urbanizzazione. L'attenzione è dunque legittima. Ben venga peraltro la protesta civica e civile del consigliere comunale del Movimento 5 Stelle Mattia Calise, che nelle scorse settimane si è arrampicato su uno degli alberi di via Lorenteggio per protestare contro l'abbattimento delle piante, gesto che ha certamente attratto l'attenzione mediatica sulla situazione nella periferia milanese.

E' un copione ben noto nella civiltà contemporanea. Lo Stato, il Comune, la Regione o chi per essi decide di costruire un'opera, che giocoforza rivoluzionerà l'ambiente circostante. La cittadinanza toccata sul vivo si muove per far sentire la propria voce. E, come ricorda la giornalista messicana Cynthia Rodriguez nel blog "La città nuova" del Corriere della Sera, talvolta la voce della popolazione può avere la meglio. Sul progetto del Tren Elevado in Messico, fu il parere (unito) del popolo ad avere la meglio. Chissà che a Lorenteggio una proposta costruttiva della cittadinanza possa garantire un futuro alle 573 piante milanesi.

Ilaria, quando alla corsa agli stand-up è preferita la ricerca della verità

Ilaria Alpi, inviata in Somalia negli anni Novanta.
Foto Giornalistitalia.it
Una giovane giornalista che incarna al meglio un mestiere che spesso intraprende derive antietiche, esibizionistiche ed autocelebrative. Una strada da seguire per cercare di far emergere traffici internazionali dubbi e illeciti. Un sistema e uno Stato che la abbandonano. Si intrecciarono più traiettorie nella vita giornalistica in Somalia di Ilaria Alpi.

Lei, trentaduenne e alla prima missione da inviata, fu l'unica - sempre in prima linea e tra le linee - a provare a districare la complessa matassa di intrighi internazionali che si celavano dietro la guerra civile somala degli anni Novanta. Non è difficile amare il giornalismo, è molto meno semplice invece onorarne nel profondo la professione. Ilaria non amava le conferenze stampa preconfenzionate, lei stava sul campo, tra le donne, tra la gente di Mogadiscio. Alla corsa agli stand-up preferiva l'approfondimento. Grazie a questa visuale non protocollata, non accomodante, non tradizionalmente embedded, Ilaria intravide quello che ancora oggi, ventuno anni dopo la sua morte, è stato secretato e in gran parte oggetto di depistaggi dai Servizi.

I recenti sviluppi d'indagine giornalistica - raccontati da Chi l'ha visto e dalla docu-fiction di Rai Tre - forniscono carburante vitale alla ricostruzione di uno scenario estremamente labile nel quale Ilaria si era introdotta, nella ricerca della verità. "Nessuna rapina o tentativo di sequestro. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono caduti in un agguato, studiato nei dettagli, per zittire una giornalista divenuta ormai estremamente pericolosa e, con lei, il suo operatore". Così scrive Repubblica dopo gli ultimi sviluppi. Ilaria, inviata del Tg3 nel 1994, avrebbe raccolto in Somalia - tra Bosaso e Mogadiscio - indizi sufficienti per smascherare un traffico d'armi clandestino. Ventun'anni dopo, il modo migliore per onorare la voce coraggiosa di Ilaria Alpi è condividerne la travolgente passione che le faceva portare l'amore per la popolazione somala e la verità nel cuore.


Remembering, la riconquista della dignità perduta

Ai Weiwei davanti all'elenco dei nomi dei bambini
morti nelle scuole crollate nel sisma del Sichuan.
(Foto artasiapacific.com)
Remembering. Hua Lian Ba Er, o 4851, oppure ancora Names Project. Ha assunto forme parallele, complementari e differenti la vocazione sociale e d'attivista di Ai Weiwei. Il post-terremoto del Sichuan ha innescato nell'artista cinese un sacro e inarginabile fuoco interiore. Passione per la verità, necessità di non arrendersi all'occultamento di numeri e dramma da parte del Partito. L'artista contro il regime. Numeri, immagini, ricerca e arte per restituire un nome, uno spazio nel mondo, un piccolo risarcimento morale alle migliaia di bambini morti sotto le macerie delle scuole crollate. Morti silenziate dalla Repubblica Popolare. Nessun bilancio ufficiale. Ai non ci sta. Mette in piedi un team di ricercatori nel suo studio e il risultato è il toccante e sterminato elenco di nomi. Fogli bianchi appesi ad un muro dello studio di Ai. Uno spazio per ognuna delle piccole vite spezzate che la madrepatria Cina non voleva emergessero. E' l'artista ad arrivare là dove i diritti umani negati di un Regime non consentono di poter essere. Nella verità. Ma il colossale Names Project targato Ai Weiwei, si diceva, ha assunto multiformi facce. Quella più filologicamente artistica ha preso vita a Monaco di Baviera, dove nel 2009 tappezzò la facciata principale della Haus der Kunst con migliaia di zainetti colorati. Uno per ogni bimbo morto nel terremoto del Sichuan. Il risultato, folgorante, è Remembering. Un'installazione artistica che, nel colore, fa emergere la scritta "Ha vissuto in questo mondo felicemente per sette anni". Parole fatte proprie da Ai, una volta ascoltate da una madre orfana del figlio perso sotto le macerie. E' arte. E' la più efficace forma d'arte che il mondo globalizzato possa esprimere.
"Remembering". Ai Weiwei, Haus der Kunst.
Monaco di Baviera, 2009.
(Foto imageobjecttext).
Rottura degli schemi, a maggior ragione se imposti da una dittatura mascherata e convertita al dio denaro. La dignità per le vite perdute, null'altro. Di Ai Weiwei colpisce anche l'utilizzo del mezzo. Dell'immagine, della Rete, dei social. Tutto è documentato e spesso twittato in diretta. Nella lotta al Regime, il contenuto può far la differenza. Il contenuto in immagine che Ai preferisce è il documentario. 4851 è un lungometraggio nel quale scorrono senza soluzione di continuità i nomi delle piccole vittime del terremoto. Hua Lian Ba Er è invece il resoconto documentaristico di tutta la maxi-indagine condotta dal team di Ai alla ricerca della verità di un dramma del quale la Voce ufficiale unificata del Partito nulla voleva far emergere. A colmare le sconfinate lacune morali delle istituzioni, ha risposto Ai Weiwei, l'artista.



Hua Lian Ba Er, documentario realizzato nel 2009 da Ai Weiwei e i suoi collaboratori, sull'indagine condotta dall'artista-attivista cinese per restituire un nome a tutti i bambini morti nel terremoto del Sichuan del 2008.




4851, lungometraggio realizzato nel 2009 da Ai Weiwei, dove scorrono senza sosta i nomi delle migliaia di bambini morti nel terremoto del Sichuan.

Pacific trash vortex

Riproduzione grafica del posizionamento del Vortex.
(Foto http://local-info.co.za/)
Banane, radicchio, arance, mozzarella e piadine. Una scarna lista della spesa qualunque non tiene conto del primo prodotto che, più o meno inconsapevolmente, acquisteremo una volta al supermercato. La plastica. Tutto ciò che acquistiamo è rigorosamente imballato e decenni di miopia ambientale ora chiedono il conto. Il conto in questione può avere molti nomi, uno dei tanti - probabilmente il più salato - si chiama Pacific Trash Vortex. Una enorme isola di immondizia e plastica nel bel mezzo dell'Oceano Pacifico. Una distesa immane di scarti del mondo globalizzato, della quale i più nulla sanno. I colpevoli siamo noi. Nessuno escluso. Ma non è la determinazione di responsabilità il presente intento. Uno studio delle Nazioni Unite nel 2012 stimava la presenza di 46 mila pezzi di plastica per chilometro quadrato negli Oceani. Un numero destinato, sempre secondo l'indagine Onu, a raddoppiare nei prossimi dieci anni. Non solo, ammonterebbero a cento milioni di tonnellate, i materiali dispersi in acqua. Lo scempio ambientale ha mille padri, ma nasce - oggi come ieri - nel nostro quotidiano gesto di fare la spesa e nella successiva inciviltà dello smaltimento delle plastiche. Già nel 2007 si denunciavano numeri da incubo per il Pacific Trash Vortex: un diametro di circa 2500 chilometri, profondità di 30 metri e composizione per l'80% di plastica.


Il video di Greenpeace (http://www.greenpeace.org/international/en/campaigns/oceans/fit-for-the-future/pollution/trash-vortex/) mostra, attraverso una simulazione, gli effetti e l'evoluzione temporale del Pacific Trash Vortex.

La memoria è geografica e labile

La prima pagina del "New York Times" del 29 giugno 1914.
Con la notizia dell'assassinio dell'arciduca
Franz Ferdinand a Sarajevo. (Foto coaloalab.altervista.org)
La memoria è geografica. Si ricordano le sensazioni che si vivono, gli oggetti che si toccano. E' un fattore innanzitutto fisico. Ma la memoria è prima ancora labile. La voracità del flusso di informazioni - spesso superficiali - che inondano la civiltà contemporanea incentiva la perdita di pezzi, anche rilevanti, della memoria. Cento anni bastano a cancellare nella memoria collettiva di un popolo buona parte del sangue versato? Sembrerebbe di sì.

Nel 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, nel 1915 l'Italia entrò nella Grande Guerra. Un conflitto che segnò un cambio epocale. Si entrò di fatto nell'era contemporanea. Dall'età imperiale a quella che poi avrebbe portato a industrializzazione e globalizzazione.

Ma il fatto che, tre generazioni dopo, agli italiani vada spiegata la Grande Guerra è un dato estremamente significativo, dove le componenti della memoria si intersecano. Geograficamente la memoria varia. A Trieste, Trento e sulle vette alpine non c'è bisogno di doverlo spiegare quel conflitto. In buona parte del Belpaese, a differenza della Seconda Guerra Mondiale, sì.

La prima pagina del "Corriere della Sera"
del 29 giugno 1914.
Inciderà certamente la storicizzazione seguente che indirizza e influenza la cultura di massa, ma non è una condizione sufficiente a spiegare come in un secolo la memoria di disumane fatiche, eroiche battaglie e complesse continentali dinamiche che a ben vedere non sono ancora concluse, sia del tutto sparita.

E' forse necessaria una riflessione sull'insufficienza di attenzione e approfondimento che la cultura e l'informazione massificata sta producendo.

Ci riempiamo le menti, gli occhi e le pance di parole, titoli, scoop e immagini, tutte destinate a lasciare prontamente il posto a nuove, fresche, parole, immagini, scoop, in grande parte superficiali. La massificazione dei contenuti può uccidere il contenuto stesso e la vittima è la memoria.

Teatro e vita

Antonella Costa. (Foto Liveinitalia.it)
Antonella Costa. Teatro e vita, inscindibili in Oniria. Due volte l'Oceano, come Quirino Cristiani, per la giovane attrice. Nata in Italia, figlia di due esuli (il padre cileno, la madre argentina) vissuta a Mantova in tenera età, poi cresciuta in Argentina.

La letteratura e il teatro raccontano spesso il disagio interiore. Legami, amori, dolori, lacerazioni e passione. L'avvicinamento allo spettacolo teatrale "Oniria" ne è un profondo esempio. Una Oniria era quella portata in giro per i teatri italiani dal padre Martin Andrade. Gli occhi di Antonella la videro da piccola. L'altra Oniria è quella di oggi. Nata dall'impressione indelebile lasciata sulle retine di una bambina, che ammirava l'amato padre. Amore e lacerazione insanabile, dopo il forzato distacco. E l'omaggio nel nome vincola due vite, o forse una.




Da Youtube il servizio realizzato per Telemantova.

Ai Weiwei, artista

Ai Weiwei Presents Sichuan Earthquake Data 
at First Tate Modern Hackathon. (Foto Artlyst.com)
"Silenzio per favore, niente clamore. Lasciate che la cenere si posi, che i morti riposino in pace". La voce è di Ai Weiwei, che attraverso il suo seguitissimo blog, il 22 maggio 2008 aprì al mondo il dramma del devastante terremoto del Sichuan. Magnitudo 7.9, i dati ufficiali registrano 69.225 morti, 374 mila feriti e 17.939 dispersi. Scossa principale il 12 maggio 2008, con epicentro nella contea di Wenchuan.

Ai Weiwei è il nome di richiamo di una mostra artistica in corso a Palazzo Te, a Mantova. Figura poliedrica, non facilmente etichettabile. In fondo l'artista deve colpire l'attenzione, sorprendere, eludere gli schemi. E per la Cina contemporanea, Ai Weiwei sa essere coscienza e voce fuori dal coro. Sentinella di libertà d'espressione nel mare-magnum del rigido capitalismo.

Seimila bambini restarono sotto le macerie del sisma del Sichuan. Morti sotto le scuole crollate. Decine di palazzi rimasero intatti dopo le scosse, le scuole e i dormitori invece finirono sbriciolati. Crollate perché costruite con "calcestruzzo di qualità inferiore per le fondamenta e i pilastri" e "acciaio non sufficientemente rinforzato". A scriverlo, nei giorni drammatici della "perdita della bellezza" per la Cina dello sfrenato capitalismo di partito fu l'unica voce dissidente. Ai Weiwei, artista.

L'arte talvolta riesce ad essere antidoto alla mediocrità, rottura di schemi, ribellione. L'arte stuzzica la coscienza e la memoria, troppo labile in una società frenetica ed eccessivamente vincolata all'immediatezza e alla geografia, dove le notizie durano il breve volgere di pochi secondi e con loro sgomento e reazione. Poi è tutto dimenticato.

Pagine aperte

Il primo post.
La tecnologia partorisce innumerevoli tipologie di espressione, spesso superficiali. Nell'epoca degli imperanti social network, un ritorno ad una forma meno convenzionale, preconfezionata ed accomodata di forma espressiva in rete è necessaria.
La ricerca dei significati e dell'approfondimento, al posto di un rapido e autocelebrativo tweet. Un blog dalle pagine aperte.